
Gli allevamenti intensivi di visoni causano sicuramente grandi problemi agli animali e gravi danni all’ambiente. Ma in questo periodo storico possono essere pericolosi anche per noi uomini. Alcuni diventano veri e propri focolai di coronavirus.
Per questo motivo si sta chiedendo in Italia, sempre pi? a gran voce, di porre fine a questi allevamenti.
Gli allevamenti come causa di sofferenza
L’allevamento intensivo di visoni prevede la convivenza di più individui in una stessa gabbia. Che ovviamente non permette all?animale di essere libero di muoversi.
I visoni sono animali selvatici, solitari e nascendo in allevamento sviluppano comportamenti anomali e stereotipati. Saltano per ore all’interno della gabbia. Hanno paura dell’uomo. Diventano aggressivi. Si infliggono lesioni. Commettono infanticidio. Leccano, graffiano, mordono e scavano la gabbia. Inseguono la coda in circolo.
I visoni, inoltre, in condizioni normali, sono animali semiacquatici e vivere in gabbia non permette il soddisfacimento di fattori essenziali per loro come correre, arrampicarsi, nascondersi in tunnel.
Non solo l’allevamento, anche la morte diventa cruenta. Tra i metodi previsti per l’abbattimento, ad esempio, vi sono strumenti a funzionamento meccanico con penetrazione nel cervello.
Gli allevamenti come fonte di contagio
Questi allevamenti intensivi possono diventare anche dei veri e propri serbatoi di Covid – 19.
Migliaia di animali si trovano costretti in pochissimo spazio. Questa è una condizione ottimale per l’evoluzione del virus.
Gli allevamenti intensivi in Europa
Come riporta il sito della LAV, in Olanda, tra aprile e ottobre 2020, sono stati registrati focolai in oltre 60 mila allevamenti. E si sono verificati almeno 66 episodi in cui i visoni hanno trasmesso il virus all’uomo.
Nonostante l’abbattimento di oltre 2 milioni di animali, la diffusione del virus tra i visoni non si è fermata. E il governo ha predisposto la chiusura di tutti gli allevamenti intensivi di visoni entro il 2020.
In Danimarca la situazione è ancora più grave. Ad ottobre sono stati documentati oltre 100 focolai negli allevamenti di visoni e almeno 150 casi di contagi partiti dall’animale. E sono stati abbattuti 2,5 milioni di visoni.
In Europa molti Paesi hanno deciso di dire basta a questa forma di sfruttamento. Tra cui Regno Unito, Austria, Olanda, Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca, Lussemburgo, Belgio. Hanno fatto importanti passi in avanti anche Spagna, Germania, Svezia.
Gli allevamenti intensivi in Italia
Come riporta la stessa LAV, anche in Italia ? confermata la presenza del Covid – 19 negli allevamenti intensivi di visoni.
Sebbene la situazione sia degenerata nel resto d’Europa, qui non sono stati eseguiti screening. Ad oggi è a discrezione del veterinario (pubblico o aziendale) decidere se effettuare dei test per la diagnosi del coronavirus.
Ad oggi si presume che il contagio sia localizzato in Lombardia, che conta tre allevamenti e circa 40 mila visoni. Ma non è questa l’unica regione in cui sono presenti questi animali. In Veneto ci sono due allevamenti, in Emilia – Romagna uno, così come in Abruzzo. Per un totale di circa 60 mila visoni.
Nonostante ci?, ad agosto sono stati prelevati dei campioni da un unico allevamento. E due sono risultati positivi.
Attualmente solo in un allevamento in provincia di Cremona vengono condotti test diagnostici per rilevare la presenza del Covid – 19. Ma non è ben chiaro se questi siano limitati ad animali che presentano sintomi.
I visoni, infatti, come gli uomini possono essere anche asintomatici. Ecco perchè il pericolo di veri e propri focolai senza una prevenzione potrebbe essere molto alto. Da qui la petizione della LAV, che chiede di vietare l?allevamento di visoni in Italia.
Dal 2013 sono state avanzate tre proposte legge per contrastare questo tipo di allevamento. Ma fino ad ora non si è arrivati a nessuna conclusione.
Come riportato da Esseri Animali, l?86% degli italiani vorrebbe vietare questi allevamenti intensivi di visoni. La stragrande maggioranza della popolazione è d’accordo: perchè continuare a provocare tanta sofferenza?
Marianna Fierro
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