Secondo l’ultimo report della Global Witness nel 2020 sono oltre 200 gli attivisti morti in nome delle loro idee. Precisamente, lo scorso anno sono state uccise ben 227 persone impegnate nella difesa dell’ambiente e della terra. Nello specifico, la Global Witness è un’organizzazione non governativa internazionale che dal 2012 ha raccolto i dati sulla repressione ambientale.
Il numero totale di morti è, comunque, sottostimato vista la difficoltà di raccogliere informazioni da ogni parte del mondo.
Procediamo, però, con ordine e cerchiamo di comprendere quali siano i paesi maggiormente coinvolti nelle uccisioni degli attivisti e quali sono i soggetti più vulnerabili in questo terribile scenario.
I dettagli del report sugli attivisti morti
Quindici è il numero degli omicidi in più rispetto al 2019. Ma di che cosa si occupavano gli attivisti coinvolti nella difesa ambientale?
Perlopiù questi erano contro l’attività mineraria, gli impianti idroelettrici, i progetti di agribusiness e disboscamento. Circa la metà degli omicidi, inoltre, è avvenuta in soli tre paesi: Colombia, Filippine e Messico.
In particolare, la Colombia è il paese più attaccato con 65 omicidi.
In Messico, invece, sono stati contati 30 omicidi nel 2020. Il 67% in più rispetto all’anno precedente). Mentre nelle Filippine sono stati registrati ben 29 omicidi. Il terribile epilogo è iniziato nel 2016 con la prese del potere del Presidente Rodrigo Duterte.
I soggetti più vulnerabili
Tra gli attivisti morti, i soggetti più vulnerabili sono le comunità indigene, che costituiscono 1/3 delle vittime totali del 2020. Gli attacchi avvengono, in particolar modo, per combattere il disboscamento. Infatti, in Messico la metà degli stermini ha riguardato persone indigene, così come anche in Brasile. Qui solo nei primi mesi del 2020 sono stati uccisi sei ambientalisti.
Tra questi Zezico Guajajara, è stato tra le figure di spicco del popolo Guajajara, che da tempo era attivo nella lotta al disboscamento grazie anche ad un corpo di sorveglianza forestale indigeno.
Inoltre, lo scorso dicembre nove indigeni Tumandok sono stati assassinati dalla polizia sull’isola di Panay (Filippine). La loro “colpa”? Boicottare una diga in costruzione presso i loro territori.
Come si può facilmente intuire, molte sono le aziende, che in nome del profitto, mettono in secondo piano l’ambiente e la difesa dei diritti umani.
Il profitto delle aziende contro i diritti umani e l’ambiente
Sempre più aziende, in ogni parte del mondo, si stanno impegnando in un modello economico estrattivo che privilegia in modo schiacciante il profitto rispetto ai diritti umani e all’ambiente.
Questo atteggiamento, perpetuato negli anni, è stato una delle cause, che ha scaturito la crisi climatica e di conseguenza l’uccisione dei suoi difensori.
In troppi paesi, ricchi di risorse naturali, le aziende territoriali operano con quasi totale impunità.
Il commento di Bill McKibben
Sugli attivisti morti e in nome di questo scempio umano, Bill McKibben, ambientalista statunitense, scrittore e giornalista, ha dichiarato:
I difensori sono a rischio perché si trovano a vivere su o vicino a qualcosa che alcune società richiedono. Quella richiesta – la richiesta del massimo profitto possibile, la tempistica più rapida possibile, l’operazione più economica possibile – sembra tradursi alla fine nella comprensione, da qualche parte, che il piantagrane deve andare.
Restare umani in questo mondo “sordo” e affarista, sta diventando sempre più difficile.
Fonte: Global Witness
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Margherita Parascandalo